La scienza di “Babilonia nel cielo”

Lunedì scorso è uscito Hortus Mirabilis. Storie di piante immaginare, a cui ho partecipato con un racconto, intitolato Babilonia nel cielo. Questo è il secondo articolo che scrivo per parlarne, il primo si trova qui e racconta del processo di scrittura, mentre lunedì prossimo parlerò della pianificazione e di come è stato successivamente modificato con l’editing.

Ma oggi, finalmente, si parla di scienza.

Vari dettagli sono finiti più o meno intenzionalmente nel racconto; in parte perché vengo da anni di scrittura in un setting, quello della mia space opera, in cui cerco di dare basi scientifiche quantomeno credibili, soprattutto quando si tratta di costruire i pianeti e i sistemi in cui viaggiano i personaggi. Il risultato non è vera e propria hard sci-fi, ma un equilibrio di scienza e invenzione su cui mi è piaciuto parecchio muovermi.

Nel blu dipinto di blu

Parto dalla cosa più evidente, la prima che ho citato nel racconto e che mi è venuta in mente in fase di pianificazione: le piante, sul pianeta Ishtar in cui è ambientato il racconto, sono principalmente blu.

Mi piace giocare con i colori in questo modo, perché poche cose gridano immediatamente “pianeta alieno” come i colori messi nel posto sbagliato. Ma perché proprio il blu? La protagonista lo spiega all’inizio del racconto: la stella madre del sistema è un po’ più calda del sole, quindi emette più luce blu rispetto al sole. Luce più energetica che le piante si saranno adattate per riflettere. Ho letto delle ipotesi sul colore delle piante in base al tipo di stella in questo articolo.

Poi, se devo essere sincera, il vero motivo per cui ho deciso di mettere una stella di classe K al centro del sistema e quindi rendere le piante blu è semplicemente perché mi piaceva l’immagine. Perché “do it for the aesthetic” è la mia filosofia preferita.

Vorrei giornate di trentasei ore

Ishtar ha un periodo di rotazione di trentasei ore. La protagonista ci fa l’ovvia battuta sopra, ma l’ispirazione per questo non è venuta dal fatto che le vorrei davvero, le giornate più lunghe (soprattutto mentre dovevo preparare sette esami in un mese).

Ishtar in realtà è una luna del gigante gassoso Enlil – e della scelta dei nomi parlerò alla fine di questo articolo. Normalmente le lune sono in rotazione sincrona, ovvero rivolgono al pianeta sempre la stessa faccia, per via delle forze mareali, ma questo di solito implica dei periodi di rotazione molto lunghi, che non vanno molto d’accordo con la vita (troppe ore di sole di seguito, seguite da troppe ore di buio, creano sbalzi termici intensi. E alle cose vive in genere non piacciono).

Ma qui entra in gioco un altro elemento: se Enlil si trova nella zona abitabile della sua stella, tanto che Ishtar ha acqua liquida sulla superficie, significa che ha un’orbita decadente che lo ha avvicinato alla stella rispetto a dove si è formato (perché i giganti gassosi non possono formarsi così vicini). Orbita decadente implica incasinare le orbite a tutti gli altri corpi del sistema, ed ecco che Ishtar potrebbe essere un altro pianeta catturato dalla gravità di Enlil. E quindi può avere un periodo di rotazione anche diverso dal previsto.

Però non ho fatto i calcoli, di tutto questo. Non voglio così tanto male al mio cervello.

La copertina dell’articolo è un’altra elaborazione che ho fatto di Enlil e Ishtar.

I tentacoli stanno bene su tutto

Non conosco il genere weird quanto conosco la fantascienza o il fantasy, quindi quando mi è stato proposto il progetto, la prima cosa che mi è venuta in mente a riguardo è stato Lovecraft, Cthulhu e tutta la faccenda. Quando poi questo ha colliso con le mie scarse conoscenze di botanica, ecco che è spuntata l’idea di una delle caratteristiche della pianta protagonista del mio racconto, la Cerulea ishtaris.

Sì, i tentacoli.

C’è una ragione anche scientifica al di là del “do it for the aesthetic”, appunto. Stavo pianificando una pianta che potesse colonizzare velocemente tutto lo spazio disponibile, per cui, oltre alle spore, ho pensato che potesse riprodursi anche tramite stoloni. È un meccanismo di riproduzione che, secondo me, è perfettamente “in character” con la Cerulea ishtaris… e poi sì, rientra pure nell’aesthetic. Cos’altro potevo volere di più?

La voce delle piante

A volte pianifichi tutto alla perfezione e poi spunta dal nulla qualcosa che ti costringe a ricalibrare, ma che è troppo perfetta per non inserirla, anche se questo implica lavoro in più. Nel caso di Babilonia, il ruolo l’ha ricoperto questo video.

Mi ci sono imbattuta quando avevo già tutta la storia pianificata e la stavo scrivendo. Anche se di solito modificare l’outline per incastrarci l’idea random appena avuta, per il mio processo creativo, è una pessima idea, ho dovuto farlo.

Seguono spoiler su Babilonia, se non li volete passate al paragrafo “Di pianeti e divinità”.

Sapevo fin dall’inizio che la Cerulea ishtaris dovesse avere una sorta di mente alveare. Ogni esemplare infettato dalle spore diventa di fatto un drone privo di volontà propria con l’unico scopo di propagare la diffusione della pianta.

In questo contesto, l’idea di un sistema di segnali sonori per comunicare con altri organismi infettati mi è sembrato interessante, soprattutto se abbinato al fatto che le frequenze sono troppo alte per essere percepite dall’orecchio di umani non infettati. Ho immaginato che questi segnali potessero triggerare una sorta di “override” del cervello dell’ospite, obbligandolo quindi ad agire secondo la volontà della mente alveare.

Di pianeti e divinità

Questo non è un dettaglio scientifico, ma ci tenevo a citarlo lo stesso, come conclusione dell’articolo. Mi piacciono gli Easter egg e mi piace inserire citazioni in quello che scrivo e questo racconto non fa eccezione. E poi, i nomi sono un ottimo posto dove infilare rimandi e significati nascosti.

Come per il nostro sistema solare i nomi dei corpi sono ispirati alle divinità classiche, allo stesso modo ho voluto dare al sistema del racconto riferimenti alle divinità babilonesi.

Ho chiamato la stazione Babylon per il riferimento alla Torre di Babele, quindi alla presunzione degli uomini. Quindi la stella del sistema doveva essere Marduk, dio del sole e protettore della città di Babilonia, e il gigante gassoso Enlil, dio dei venti e delle tempeste. Il pianeta su cui si trova la stazione invece è stato chiamato Ishtar, come la dea dell’amore e della guerra, per il suo essere da un lato pieno di bellezza, dall’altro terrificante.

A darmi una mano con la scelta dei nomi è stato, ovviamente, il mio Consulente Ufficiale di Cose Babilonesi, Daniele Torrisi, che gestisce la pagina Aperitrivia e sa scrivere in cuneiforme. In suo onore, ho chiamato Anankè la stazione dove si trova il comando della missione, che è effettivamente una stazione dell’orbita terrestre in uno dei suoi racconti.

Insomma, Babilonia nel cielo contiene un po’ di robe scientifiche aesthetic, un po’ di dettagli da nerd e pure un Easter egg, il tutto in mezzo a pianeti alieni e piante ostili. Mi sono voluta complicare la vita? Probabilmente sì, ma il modo in cui più mi sono complicata la vita è la struttura del racconto, di cui ho vagamente accennato nell’articolo precedente, ma di cui parlerò estensivamente lunedì prossimo (wow, queste transizioni molto smooth!).

Vi do quindi appuntamento alla prossima puntata di “Cosa succede nel cervello di Vy” per sapere qual è il collegamento tra Alien Covenant, le simmetrie e come ho usato la luce e il buio in Babilonia. Vi aspetto!

2 pensieri riguardo “La scienza di “Babilonia nel cielo”

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